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Passato prossimo puntata 5: “L’ultimo sigillo”

Aneddoti, vicende e curiosità della storia più contemporanea del territorio di Fiumicino


A Roma esisteva un adagio che recitava più o meno così: “nun sei Romano si nun hai salito quei tre gradini”, intendendo con questo che per essere considerato veramente romano, bisognava essere stato condotto almeno una volta a Regina Coeli, e quindi aver salito i tre gradini del portone principale di via della Lungara.
 
A Fiumicino potremmo parafrasare e, usando la stessa ironia, dire: “non sei un vero Fiumicinese se non hai un abuso edilizio sulla tua fedina penale”. Forse dovremmo dire “vero isolano” piuttosto che “Fiumicinese”, in quanto questo fenomeno che andremo ad analizzare, si è ben radicato soprattutto nell’area di Isola Sacra.
 
Preciso però, onde evitare polemiche, che non è intenzione di nessuno di banalizzare un reato come l’abuso edilizio, ma solo raccontare una storia, sapendo che non tutti gli abusi sono uguali, e alcuni nascondono altro dietro di loro. È la storia dell’abusivismo di necessità, così chiamato perché consiste essenzialmente nel realizzare le abitazioni strettamente necessarie ai nuclei familiari interessati, senza specularci sopra, ma al contrario realizzandolo il più delle volte con sacrifici e tanta fatica.
 
A far sviluppare il fenomeno a Fiumicino, soprattutto tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, concorsero una serie di fattori, primo fra tutti la lentezza burocratica degli uffici comunali di Roma a cui apparteneva questo lontano lembo di terra allora inquadrato nella XIV circoscrizione. Parallelamente l’Aeroporto cresceva, produceva posti di lavoro di ogni genere, garantendo salari dignitosi e rispetto dei contratti.
 
Come nelle migliori congiunture astrali, inoltre, gli anni ’80 sono quelli in cui i grandi proprietari terrieri dell’Isola Sacra, ormai stanchi dell’agricoltura, cominciarono a lottizzare i propri appezzamenti. Mille metri quadrati di terra venduti a circa 3000 lire al metro quadro, ovvero meno di 1,50 euro di oggi. Il cerchio era quindi chiuso, e gli elementi erano tutti al loro posto per fare esplodere il fenomeno.
 
Acquistato il terreno bisognava cercare una ditta edile disposta a correre il rischio. In questa sorta di mercato nero, i prezzi cambiavano proprio a seconda della posizione che la casa avrebbe dovuto avere: più cara se l’abuso era particolarmente esposto, meno cara se invece si costruiva in strade bianche sperdute nel cuore della campagna isolana. Ecco allora che anche i lotti più nascosti potevano diventare utili, e così molti Fiumicinesi cominciarono a conoscere nomi di strade mai sentite prima come via Valderoa, via Doberdò o via Castagnevizza. Si trattava, e lo rimarranno ancora per tutti gli anni ottanta, di piccole strade di campagna, polverose in estate e fangose in inverno.
 
I più fortunati avevano una strada, altri dovevano inventarsela: “Mio marito nel 1981 si convinse a voler costruire la nostra casa in mezzo a quello che per me era il nulla, mica uno stradone come è oggi” dichiara Maria, signora ormai quasi ottantenne, mentre parla seduta nel salotto della sua casa che affaccia sulla trafficatissima via Trincea delle Frasche.
 
Una volta pattuito il prezzo con i muratori, iniziava la vera e propria epopea. I lavori in genere si svolgevano in piena notte, o comunque quando il passaggio dei vigili urbani era meno certo. Si lavorava in molti, non solo gli operai della ditta.

“Staccavo dal cantiere ad Ostia, dove lavoravo il legno, verso le 18 e andavo a dare una mano a tutti. A chi serviva. Ogni sera c’era una nuova casa da tirar su” ha dichiarato Gigetto, 75 anni, al tempo carpentiere.
 
La costruzione di una casa diventava quindi un fatto sociale. Partecipavano le famiglie dei dintorni contente di avere qualche vicino in più in zona; partecipavano gli amici, o anche chi era solo in attesa di avviare i propri lavori, e sapeva che una rete di aiuti era necessaria.

“In 15 giorni tirammo su il grezzo per casa mia, di mio fratello, e di mia cognata” ha dichiarato Geppino, allora dipendente aeroportuale, oggi presidente del Centro anziani Catalani di Fiumicino.
 
Fare bene, ma soprattutto fare presto. Sì scaricavano anche 1000 blocchetti a sera e la mattina erano già finiti. Per velocizzare sempre più i lavori, cominciarono anche a girare leggende che per molti anziani sono ancora realtà. Come ad esempio quella di realizzare rapidamente il tetto in quanto una volta fatto questo, nessuno poteva più demolire la casa.
 
“Non è assolutamente vero, qualunque tipo di abuso avrebbe dovuto essere demolito – precisa l’ex comandante dei Vigili Urbani Vittorio Catenelli, in quegli anni già in prima linea insieme ad una quarantina di colleghi nella vastissima XIV circoscrizione – Ma in realtà da Roma non arrivò mai nessuna ordinanza di demolizione esecutiva, almeno per questo tipo di abuso”.
 
Già, perché la storia andava più o meno in questo modo per tutti quanti. Anche il lavoro dei Vigili Urbani era complicato. Una volta “beccato” l’abuso, infatti, prima di procedere al sequestro erano costretti ad inviare un fax al comando centrale di Roma e aspettare che lo stesso poi inviasse la ditta per apporre i famosi sigilli. Per far questo passavano anche due settimane, tempo durante il quale si cercava di terminare quanto più possibile: fuori restava il grezzo, dentro si mettevano i pavimenti, a volte delle finestre posticce e poi si era pronti ad andarci a dormire. A quel punto il sogno era realizzato, anche se mancava ancora qualcosa: “L’acqua andavamo a prenderla alla fontanella mentre per lavarci usavamo quella di cantiere. Non avevamo le fogne ma il pozzo nero e la corrente ci veniva prestata dal vicino che aveva già ottenuto l’allaccio”, ha aggiunto Geppino.
 
Con il cuore un pò più sollevato per il traguardo raggiunto, arrivava poi anche il giorno del tribunale. Erano un paio i magistrati addetti a questo compito a piazzale Clodio. In genere si veniva condannati dai 5 ai 9 giorni di reclusione ma con totale sospensione della pena, il dissequestro immediato del bene e il rinvio al Comune degli atti di demolizione.
 
Il cittadino aveva così pagato allo Stato la sua responsabilità penale, ora il gioco passava all’amministrazione pubblica. Il Comune di Roma sapeva che non avrebbe mai adempiuto alle demolizioni di quelle case fatte con i sacrifici.
 
Un sistema fatto insomma di falle amministrative, di tanta burocrazia ma anche tanta umanità. Ed era quello che volevo fare emergere da questa puntata di “Passato prossimo”. Un reato, quello dell’abuso edilizio di quegli anni, che resta tale ma che era condito anche di storie, necessità, sacrifici e non certo di speculazione e arricchimento. Valori che hanno contribuito a creare il senso di comunità che oggi, necessariamente, sta nuovamente cambiando.
 
 
 

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