La coppia con figlio disabile

Sabato, 07 Gennaio 2012 19:06

Autore: Stefania Curzio

Martina e Pietro, quarantenni, sono sposati da quasi dieci anni
Entrambi medici; lui proiettato nella carriera scientifica; lei, laureatasi con ritardo a causa della perdita della madre per una gravidanza imprevista a tarda età, molto impegnata nel recuperare il tempo perso con una specializzazione tanto penata in cardiologia.
Consensualmente avevano deciso di non avere figli. Eppure Martina rimane incinta. La pillola anticoncezionale ha fatto loro un brutto scherzo. Si chiedono cosa fare, decidono di portare avanti la gravidanza. Lentamente si abituano all’idea di avere un figlio. Iniziano a pensare che, anche se con grandi difficoltà soprattutto per Martina, un figlio li potrà aiutare a rinsaldare e a “rinfrescare” il loro rapporto. I genitori di Pietro da tempo chiedevano un nipote e l’annuncio dell’evento aveva portato molta gioia soprattutto per il futuro papà che, essendo figlio unico, poteva così trasmettere il suo cognome.
La gravidanza procede senza tanti scossoni. Decidono di fare tutti gli accertamenti necessari in considerazione della loro età e della terapia anticoncezionale che Martina seguiva da anni. Nessun problema. Si tratta di un maschio.
I problemi arrivano all’improvviso, appena al settimo mese. Il bambino non cresce più, è necessario farlo nascere con urgenza.
La storia è simile purtroppo a molte altre: ipossia, difficoltà cardiache, lesioni cerebrali. Massimo, questo è il suo nome, nasce in malo modo, sarà un disabile.
 
La nascita di un figlio comporta in generale l’acquisizione di consapevolezza da parte dei futuri genitori che significativi cambiamenti avverranno nella loro esistenza individuale ma anche di coppia.
La confusione, il disorientamento, un discreto livello di stress accompagnano naturalmente la nascita di un bambino. La coppia non è più tale, almeno non solo. Non si è solo coniugi o compagni di vita ma anche genitori, probabili futuri nonni. Le dimensioni di vita si ampliano. La fatica e il necessario riassestarsi nella nuova condizione in un certo qual modo vengono compensati dalla gratificazione e dalla gioia di veder crescere il proprio figlio.
La nascita di un bambino disabile apre un mondo notevolmente differente. Le fonti di gratificazione per lungo tempo sono molto scarse. I genitori devono affrontare una sorta di Lutto, di perdita: non ci sarà il figlio che naturalmente cresce, si sviluppa, si autonomizza.
La coppia, diventata famiglia, si allarga ancora di più in quanto entrano nel sistema di vita una serie di figure professionali (medici, alcune volte psicologi, educatori, operatori della riabilitazione, logopedisti).
Soprattutto nella madre si sviluppano sentimenti di vergogna, angoscia, senso di impotenza, disorientamento, sfiducia.
La prima sensazione è lo shock, una sorta di “intontimento”. Si passa al rifiuto, al dolore, ad un sentimento ambivalente che può arrivare anche a far sviluppare il desiderio di morte del figlio; al senso di colpa (attribuendosi la responsabilità assoluta di quanto accaduto), fino ad una fase di accettazione e riorganizzazione emotiva per cercare di affrontare la nuova storia di vita, propria e del piccolo, molto diversa da quella che entrambi i genitori avevano desiderato e immaginato. Alcuni si buttano alla ricerca di chi possa “salvarli” e miracolare il proprio figlio.
Per parlare di un reale adattamento alla nuova realtà è necessario che ci sia la piena consapevolezza e accettazione della disabilità.
La coppia inevitabilmente si riorganizza. Il comportamento dei due varia in rapporto alla storia personale, alle caratteristiche di personalità individuali, al tipo di relazione preesistente all’interno della coppia stessa. Possono attivare forme di iperprotezione (continua preoccupazione, ansia costante, indisponibilità a che il bambino faccia esperienze autonome) che in realtà spesso mascherano sentimenti di rifiuto; ma anche di negazione in cui esprimono comportamenti di allontanamento dalla realtà, di mistificazione, alla continua ricerca di chi minimizzi le problematiche; ma possono anche arrivare ad una forma di accettazione realistica di tutto ciò che la disabilità comporterà, con una spinta a collaborare ai trattamenti così come verranno loro prospettati.
Purtroppo in linea di massima continuano ad essere le madri a prendersi in carico la situazione nella sua completezza, rinunciando anche al lavoro, ai sogni, ai progetti personali. Sentimenti di rabbia o di disistima non sono rari. Si possono avere donne che fanno elemento primario della propria vita la causa del figlio. Donne che sopravvivono giorno dopo giorno al dolore per quello che è accaduto. Donne che pensano di essere le uniche in grado di capire i bisogni del figlio, arrivando anche a mettere in disparte il marito - ritenuto colpevole di non essere capace, competente, coinvolto – a trascurare gli altri figli o i rapporti sociali e parentali in quanto assolutamente impegnate nella missione di dare una vita al figlio.
Il padre spesso assume un ruolo più marginale, sia per scelta sia per le difficoltà di inserirsi nel rapporto simbiotico e di eccellenza che la moglie mette in atto con il bambino. Il ruolo paterno prevalentemente diventa quello di chi si occupa  dell’aspetto economico. Si attiva anche una sorta di fuga nel lavoro per distogliere l’attenzione dalla frustrazione, dalla rabbia e dal senso di colpa.
La coppia, è evidente, è messa a dura prova. Molto spesso si rompe proprio per la distanza che si crea tra i due, per la difficoltà, che si trasforma in incapacità, di condividere o di esprimere le proprie emozioni, paure. Troppo spesso l’isolamento diventa la realtà ricorrente. Si arriva anche a sentire l’altro o l’altra come il nemico che non permette di dare la giusta dimensione alla propria esistenza e a quella dell’intera famiglia.
Martina e Pietro vengono in terapia quando il livello di stress per la coppia è diventato molto forte. Non comprendono più i comportamenti dell’uno e dell’altra. Lui è arrivato a proporle un altro figlio con l’idea di trovare un canale di fuga da tutto quel dolore, quella chiusura emotiva, quel senso di disperazione che, nei tre anni dalla nascita di Massimo, ha permeato la loro casa, il loro tempo. E’ Pietro quello maggiormente capace di esprimere il dolore, la sofferenza, di credere ancora che la coppia possa trovare una dimensione più serena. Martina è molto arrabbiata. La proposta di un altro figlio l’ha messa ancora di più nella posizione di chi è incompresa. Molto arrabbiata con Pietro perché ancora fa il bambino pensando che un altro figlio cancelli la loro realtà. Martina è addolorata, si è chiusa nella sua solitudine. Ha anche intuito l’interesse che Pietro ha avuto per una sua collega biologa ma ha lasciato correre. Per lei è importante altro.
La psicoterapeuta ha lavorato inizialmente sul creare un minimo canale di comunicazione tra i due per poter almeno iniziare a “guardarsi” nel dolore che entrambi hanno profondamente, anche se esperito ed espresso in maniera - solo apparentemente -differente. Hanno con estrema difficoltà ricominciato a parlare dei loro vecchi progetti, hanno espresso la rabbia per averci dovuto rinunciare. Martina in maniera assoluta, Pietro quasi per nulla. Ma i progetti di Pietro, sin da quando erano ragazzini e studiavano insieme, erano di riuscire ad essere un bravo ricercatore con una moglie cardiologa. Sapeva della grande passione di Martina per lo studio. Era stato lui ad aiutarla nei momenti difficili a credere in se stessa, a guardarla negli occhi e ad infonderle forza e coraggio. Tutto quello che adesso aveva lo voleva con lei.
Il passo successivo della terapia, ancora più ostico del precedente, è stato quello di far loro riprendere in mano quei progetti cercando di attivare un criterio di realtà nel leggere le possibilità di recuperare, anche se solo in parte, quello che li aveva sempre accomunati: la voglia di fare, di emergere, di non fermarsi. Massimo è stato spesso presente in terapia, soprattutto nella prime sedute. Questa famiglia si è incontrata in seduta, lentamente ha preso una identità. Successivamente è stata la coppia a trovare una nuova forma per “disegnarsi” e viversi superando il lutto di quello che non potrà più esserci, lasciando lo spazio a ciò che invece potrà svilupparsi.
Certo, queste sono state riflessioni assolutamente parziali. Non si è trattato delle dinamiche relazionali che si attivano in presenza di altri figli e dei rapporti intra ed extra familiari. Ci soffermeremo più avanti sulla tematica della disabilità in termini più sistemici, trattando dei “giochi” relazionali della famiglia nel suo insieme.
 
Dott.ssa Stefania Martina - Psicologa e Psicoterapeuta familiare
Studio Ostia via del Parco 3 - tel. 347.6803276
 
 
 
 
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