a pesca di parole #3

Martedì, 22 Dicembre 2015 10:41

Autore: Stefania Curzio

Parliamo oggi con la dott.ssa Quarti di una parola così semplce ma spesso oggetto di discussione soprattutto ai giorni d'oggi.

di Stefania Quarti


Discriminazione: esistono vari tipi di discriminazioni, quelle legate alla razza, all’etnìa, alla religione, al sesso. L’ Art. 25. del Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n.198, nel Libro III “Pari Opportunità tra uomo e donna nei rapporti economici” specifica due tipi di discriminazione:
 
1) Discriminazione diretta: costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un'altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
Ad esempio le cosiddette “dimissioni in bianco” sono una pratica diffusa e generano discriminazione: si fanno firmare le dimissioni in anticipo, al momento dell’assunzione, per poi completarle con la data nel caso di infortuni, malattie e, caso più frequente, una gravidanza, nonostante ci sia una legge che vieti di farle firmare. In certi casi, addirittura si “gioca d’anticipo”: spesso, durante un colloquio di lavoro, si chiede alla ragazza se intende sposarsi, se ha intenzione di avere figli o se ne ha già qualcuno, oppure le si chiede il test di gravidanza al momento dell’assunzione; non assumere una donna perché incinta costituisce discriminazione diretta legata al genere.
 
2) Discriminazione indiretta: si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell'altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Ad esempio, stabilire quale requisito di accesso ad una selezione di lavoro che uomini e donne debbano possedere un’altezza minima uguale; oppure prevedere una indennità solamente per dipendenti che hanno optato per il full-time: in questo caso le donne che usufruiscono del part-time, per conciliare lavoro e famiglia, sarebbero indirettamente escluse dalla retribuzione accessoria. In tutte e due i casi si rappresenta una discriminazione indiretta. Ricordiamo inoltre che Il Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna considera anche le molestie, e in particolare le molestie sessuali, come discriminazione in quanto hanno “lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, degradante, umiliante o offensivo”.
Come incidono nelle nostre vite queste discriminazioni? In Italia esiste ancora un forte divario tra il tasso di occupazione maschile, pari al 64,6%, e quello femminile, pari al 47,4%, con un scostamento di 12 punti rispetto all’Europa. Le discriminazioni di cui abbiamo parlato e la precarietà sul lavoro diventano il più forte “contraccettivo” del nostro tempo e sicuramente non è un caso neanche che l’Italia sia il paese europeo con il più basso tasso di natalità. Per le donne quasi sempre significa scegliere tra lavoro e famiglia: una scelta che agli uomini non è richiesta.
Uno strumento per l’eliminazione delle discriminazioni e delle disparità tra i generi sono le cd. Azioni Positive.  
Azioni positive: secondo il Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna, consistono in misure volte alla rimozione di ostacoli che di fatto impediscono la piena realizzazione di pari opportunità  e dirette a favorire l’occupazione femminile e realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro.
Sono misure “temporanee”, necessarie sino a quando si rilevi una disparità di trattamento tra donne e uomini, ad esempio nell’accesso al lavoro e/o nella progressione di carriera. Sono misure “speciali”, poiché sono specifiche e ben definite ed intervengono in un determinato contesto per eliminare ogni forma di discriminazione, sia diretta sia indiretta. L’Italia ha approvato nel 2011 la Legge 120, più nota come legge Golfo-Mosca, che obbliga al rispetto delle “quote di genere” nei Consigli di Amministrazione e nei collegi sindacali delle Società quotate in borsa. La quota è stata fissata al 20% per il primo rinnovo e al 33% per i successivi due. Come possiamo vedere si tratta di una misura temporanea: le quote sono obbligatorie solo per tre mandati. Risultato? L’Italia è passata dal 6% di rappresentanza femminile nei Consigli di Amministrazione al 23% circa attuale (dati Consob 2015). Studi recenti sostengono che un maggior equilibrio tra uomini e donne nei vertici aziendali incide positivamente sulle prestazioni delle imprese e sulla loro competitività: d’altra parte, se ci pensiamo bene, le donne hanno sempre gestito l’economia familiare e la loro “oculatezza” può essere un valore aggiunto per le Società. In ambito politico, la Legge 215 del novembre 2012, ha introdotto disposizioni volte al riequilibrio della rappresentanza di genere prevedendo la cosiddetta “quota di lista”: nelle liste elettorali nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore a due terzi (pena la decadenza della lista nei comuni superiori al 15.000 abitanti). La Legge prevede anche la cosiddetta “doppia preferenza di genere” che consente di esprimere due preferenze purché riguardanti candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza. Mi fa piacere far notare che, nelle ultime elezioni amministrative del 2013, grazie alla norma introdotta, la rappresentanza femminile nel Consiglio Comunale di Fiumicino, è passata dal 7% al 33%.
 
Alle prossime parole: stereotipi di genere e linguaggio sessista.
Buone Feste a tutti e a tutte voi!
 
 
 
 
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